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Un Ministro che si rispetti



Un Ministro che si rispetti non compie annunci-spot su Twitter perché sa – a maggior ragione in un momento di estrema fragilità del settore su cui incide – che ogni sua frase conta, ogni sua parola ha un grave peso specifico. Impegnato in un dialogo complicato e continuo con tutte le parti in causa (e non soltanto con alcune di esse) un Ministro che si rispetti studia, medita, ascolta, fa di conto, ragiona e tace – tace – mentre è al lavoro e parla o scrive solo quando ciò che ha da dire o scrivere assume un senso e un valore effettivo. Un Ministro che si rispetti non allude, non accenna, non indica o proclama la «riapertura» dei teatri, dunque, se non è cosciente che la stratificata ed eterogenea filiera della teatralità italiana è messa nelle condizioni quotidiane e concrete di poter tornare a lavorare e creare per incontrare il suo pubblico. Il governo o l’amministrazione consapevole della complessità. Perché far ripartire la possibilità teatrale davvero non è un’accensione simbolica delle luci di sala.


Un Ministro che si rispetti sa che nel 2020, rispetto al 2019, sono andati persi 86.201 spettacoli (-65,20%), 16.495.600 ingressi in platea (-70,71%), 334.204.579,93 euro di incassi (-78,45%) a cui va sommata la perdita di 43.972.202,46 euro di spese ulteriori da parte degli spettatori (la prevendita del biglietto; il caffè o il calice di vino bevuto al bar del teatro; il libro la brochure o la rivista comprata in foyer). A questo occorre aggiungere l’arresto pressoché totale di altre forme di teatralità diffusa e formativa: gli stage, gli atelier, i laboratori, parte delle residenze svolte in presenza, l’attività dal vivo di Scuole e Accademie; il teatro tentato lì dove esiste un forte disequilibrio economico/sociale, una riduzione delle possibilità del diritto d’accesso all’arte (dal carcere alle periferie neanche pronunciabili delle nostre città); i progetti realizzati in sinergia con gli istituti scolastici (dalle primarie alle Università); certi micro-festival che appaiono per una settimana in un quartiere per ricordare, fondamentalmente, che quel quartiere (e chi lo abita) esiste davvero. E ancora. Un Ministro che si rispetti sa – e se non lo sa lo ha capito quest’anno, elaborando i ristori (insufficienti e tardivi) e l’extra-FUS (necessario e confuso) – che alle cifre e alle esperienze di cui sopra va aggiunta l’enorme quantità di lavoro nero esistente.


Ribadisco: il governo o l’amministrazione consapevole della complessità, alla luce della quale un Ministro che si rispetti avrebbe ormai dovuto comprendere che il teatro italiano non coincide con le 307 “attività teatrali” riconosciute degne di supporto-FUS e con i 146 interventi-FUS destinati al “settore danza”: il panorama, insomma, e più articolato. Ecco perché «ripartire» e «riaprire» sono (sarebbero) verbi da usare con parsimonia, con delicatezza e cautela.


Un Ministro che si rispetti elabora certo strategie di supporto finanziario decidendo poi di renderle pubbliche nella maniera che ritiene opportuna, comprese le abusate e sgargianti slide aziendali spammate via social con cui apprendiamo che finora l’intervento finanziario complessivo è stato di 863.600.000 euro, di cui 571.600.000 euro (il 66,18%) sono stati destinati a “Lo Spettacolo dal Vivo” (348 milioni di FUS 2020; 90 milioni come rifinanziamento del Fondo Emergenza Covid; 53 milioni e 600.000 euro di ristori Extra-FUS; 14 milioni per sostenere i teatri e le sale per i mancati incassi da biglietteria; 50 milioni di incremento FUS dal 2021 con ampliamento dei soggetti retribuiti; 10 milioni per le scuole di danza private; 5 milioni ulteriori per TRIC, Centri di Produzione, Teatri di Tradizione e Centri di Produzione Danza; 1 milione per il Fondo Nazionale per la Rievocazione Storica) mentre 292.000.000 (il 33,81%) hanno riguardato i “Lavoratori dello Spettacolo” (252 milioni a sostegno dei lavoratori autonomi e intermittenti del mondo della cultura e dello spettacolo tramite indennità; 20 milioni per artisti e maestranze iscritti al Fondo Pensioni Lavoratori dello Spettacolo scritturati per lo svolgimento di spettacoli non andati in scena tra il 23 febbraio e il 31 dicembre 2020; 15 milioni per gli operatori dello spettacolo viaggiante; 5 milioni per i fornitori di beni e servizi). Eppure nel contempo, mentre prova a tamponare in termini economici (possibilmente elaborando azioni interministeriali giacché le questioni da affrontare riguardano anche la Salute, il Lavoro, l’Istruzione) va detto che un Ministro che si rispetti opera ed elabora anche e soprattutto politicamente: affrontando le criticità evidenti del sistema ed elaborando quelle strategie di miglioramento che sono necessarie al settore. Lavorando, a testa bassa, ogni singolo giorno di quest’anno terribile. E invece giace ancora privo dei decreti attuativi il Codice dello Spettacolo approvato in Parlamento il 22 novembre 2017 (in quel Codice, elenco propositivo di temi fondanti, ci sono ad esempio da normare: le azioni volte al ricambio generazionale; le funzioni dei centri di sperimentazione e ricerca; la qualificazione professionale permanente di artisti e tecnici; l’interazione tra il teatro e le altre filiere culturali del Paese e il ruolo dei Circuiti Regionali, i mezzi con cui diffondere lo spettacolo italiano all’estero, i modi per attuare la conservazione del patrimonio teatrale, il sistema della danza e dello spettacolo viaggiante, i neo-criteri per individuare immobili pubblici non utilizzati e i beni confiscati perché vengano concessi a compagnie e associazioni, il teatro nelle scuole inteso non più come attività episodica ma come disciplina curriculare). E andrebbero accompagnate e messe in discussione, migliorate e integrate – sentendo costantemente le parti toccate dai provvedimenti – le proposte di Legge (Orfini/Verducci e Gribaudo/Carbonaro) che con tredici anni di ritardo rispetto al Documento redatto dal Parlamento Europeo (prima relatrice: Claire Gibault) cominciano [soltanto cominciano] «a ridefinire il quadro giuridico e istituzionale del Lavoratori dello spettacolo dal vivo al fine di ottenere una serie di misure coerenti e globali che riguardino la situazione contrattuale, la sicurezza sociale, l’assicurazione malattia, le condizioni di mobilità, disoccupazione, salute e pensione, la tassazione diretta e indiretta dei detti Lavoratori dello spettacolo dal vivo» tenendo presente «la natura atipica dei metodi di lavoro dell’artista», che «nessun artista è al riparo dalla precarietà in nessuna fase della sua carriera» e che, pertanto, «la natura aleatoria e talvolta incerta della professione deve essere necessariamente compensata dalle garanzie offerte da una protezione sociale sicura»: come d'altronde – e un Ministro che si rispetti dovrebbe saperlo – chiedono anche i quindici membri che compongono il Consiglio Superiore dello Spettacolo che (impegnati senza ricevere in cambio gettoni di presenza, compensi, indennità alcuna) da più di un anno hanno individuato proprio nelle nuove forme di tutela dei Lavoratori un'urgente priorità, il campo in cui occorre agire immediatamente.


Un Ministro che si rispetti avrebbe già programmato e iniziato a ripensare inoltre a una riscrittura del Decreto Ministeriale che determina l’impiego e la distribuzione del Fondo Unico dello Spettacolo ponendo attenzione alle criticità, più volte segnalate anche da chi ha fatto parte o fa ancora parte delle Commissioni valutative: a maggior ragione un Ministro che si rispetti lo avrebbe fatto se è lo stesso Ministro che quel Decreto lo ha firmato nel 2014. E dunque, ad esempio. Il sistema autocertificativo, la scarsa attendibilità dei numeri, l’impossibilità del controllo incrociato dei dati e l’induzione dunque implicita e reiterata all’imbroglio, «ai comportamenti scorretti e alle pratiche astute» («aumenti inverosimili di spettatori», «lievitazione dei costi di produzione effettivi», «tassi di occupazioni di sala non credibili», «presenze e riempimenti aggiustati», «laboratori e letture e proiezioni di film e video promossi a spettacoli», «contributi per giornate lavorative nominali», «borderò inesistenti o comprati»); l’assenza di ogni forma di monitoraggio quantitativo e qualitativo durante il triennio; la mancata pubblicazione online dei bilanci fiscali nonché dei progetti presentati in sede ministeriale da tutti i soggetti sostenuti dal contributo pubblico per verificarne attendibilità, evoluzione ed effettiva esecuzione; l’assenza di controlli ispettivi e di report periodici sulle attività; l’inesistenza di sanzioni per chi si discosta in maniera ingiustificata dalle progettualità presentate. E ancora. L’indefinitezza delle differenti funzioni svolte da Nazionali, TRIC, Centri di Produzione; il rilievo ancora minoritario dato alla Qualità della Proposta Artistica rispetto ai criteri quantitativi, cosicché i fattori presi in esame «finiscono per favorire le imprese di dimensioni maggiori e le realtà chiaramente più commerciali» svantaggiando sistematicamente «i soggetti che sono invece focalizzati sul rischio culturale»; l’insostenibilità dei minimi richiesti alle compagnie, a maggior ragione in un panorama in cui si accentua la stabilità autoproduttiva, si riducono le concrete possibilità di tournée e si favorisce la saturazione localistica della domanda; le crescenti disparità di finanziamento territoriale (tra aree del Paese, tra centri e periferie); la risibile quota di finanziamento destinata alle compagnie più giovani (lo 0,26%); lo scarso ricambio dei soggetti intercettati, riconosciuti e finanziati (è pari all’87,93% il tasso di conferma da un triennio al triennio successivo); il disequilibrio strutturale tra le recite di produzione (23.000, se presi i Minimi) e le recite di distribuzione (9.100) per cui, di fatto, due spettacoli su tre nascono per morire dopo le repliche in sede. Ecco, un Ministro che si rispetti quest’anno avrebbe pensato ossessivamente a tutto ciò e ad altro ancora giacché, senza una variazione effettiva di queste e altre problematiche emerse, che riapertura ci attende, o meglio: di che diamine di ripartenza si parla?


A un Ministro che si rispetti non è lecito chiedere che sappia i fondamenti teorici e pratici dell’Arte sulla quale incide in quanto Ministro né che sappia di ritmo, di recitazione e catarsi, di rapporto e accadimento, di testo e drammaturgia, della diversità che c’è tra dirigere una battuta verso il pubblico e parlargli davvero. Però forse a un Ministro che si rispetti è lecito chiedere che abbia sensibilità e accortezza per quel che sta capitando al settore che governa e che non eserciti il proprio sguardo solo dall’altezza dello scranno o della seduta Parlamentare (o ancora peggio: dalla piattezza di uno schermo piazzato tra la scrivania e i libri che tiene a scaffale) ma che sappia osservare anche da una prospettiva più bassa, urbana, stradale. Se così fosse un Ministro che si rispetti vedrebbe anche e soprattutto: teatri che hanno chiuso o stanno per chiudere definitivamente; vedrebbe compagnie che hanno perso lo spazio di prova ovvero il luogo in cui (spesso preso in affitto, a proprie spese) tentavano di praticare il mestiere; vedrebbe lavoratori cui sono scomparse in pochi giorni decine di date, mai più recuperate né recuperabili; vedrebbe un’immensa quantità di spettacoli fatti consapevolmente debuttare in estate senza che avessero possibilità di repliche autunnali o invernali; vedrebbe territori rimasti da più di un anno senza alcuna offerta culturale, senza più alcuna esperienza teatrale.


Nel contempo – continuando a esercitare questa minuziosa attenzione percettiva – un Ministro che si rispetti saprebbe anche distinguere. Perché essendo stato concesso nel 2020 il Fondo Unico dello Spettacolo dal Vivo «in deroga agli obblighi di produzione» si sarebbe accorto che ci sono state realtà virtuose che hanno reimpiegato il denaro ricevuto (in forma di FUS e di ristori e contributi ulteriori, ministeriali e regionali) generando attività multidisciplinari, residenze formative, Gruppi di Lavoro permanenti, investendo nella produttività di domani o ridistribuendo i propri ristori a compagnie e artisti indipendenti – non di rado reinterpretando “per aggiramento” o “per intuizione ricreativa” gli obblighi stabiliti dalle norme vigenti e la propria funzione, scontrandosi con la propria stessa vocazione a esistere solo e rigorosamente dal vivo – così non venendo meno alla funzione intermediaria che è propria delle strutture (che sono state finanziate per ridistribuire opportunità di lavoro e possibilità di guadagno ad artisti e maestranze, anche in tempi di impossibilità spettacolare) mentre c’è chi, da febbraio 2020 e a fronte degli ingenti contributi ottenuti, ha abbassato la serranda o si è limitato a poche e furbesche presenze di sé. Il Centro di Produzione ad esempio che, messi in cassa milioni, adesso propone un paio di spettacoli low cost in streaming (buoni tra l’altro per cercare di ottenere l’incremento-FUS nel 2021); l’ex-Teatro Stabile d’Innovazione che, ritrovatosi con centinaia di migliaia di euro nel portafoglio, si limita ai video degli spettacoli fatti negli anni passati; il Circuito che – nonostante i milioni di euro ottenuti tra Regione, Comuni ed ex-Mibact – ha realizzato un bando per drammaturghi (impiegandovi il 2,1% delle risorse a bilancio) e una mini-rassegna estiva svolta sotto al balcone del suo direttore; il TRIC o il Centro di Produzione che, da febbraio 2020, ha deciso semplicemente di tenere gli uffici chiusi, i lavoratori in cassa integrazione e le porte d’ingresso al foyer serrate a doppia mandata.


Anche alla luce di queste intollerabili disparità comportamentali e di questi (leciti) abusi di rendita e di posizione, un Ministro che si rispetti starebbe attento ad annunciare genericamente che una data c’è, che ormai ci siamo, che «la riapertura dei teatri» è cosa fatta.


Tratterrebbe invece il respiro, penserebbe prima di cinguettare sui social e, se proprio costretto a dire qualcosa, si assumerebbe il compito di approfondire come non ha mai fatto prima – come non ha mai fatto finora – spiegando al comparto, e innanzitutto a noi cittadini e all'opinione pubblica tutta, chi potrebbe o potrà davvero (in che modo, con quali economie, a che condizioni) e chi – e costituisce la maggioranza del teatro italiano – sarà invece e ancora costretto a rimanersene immobile: intento a capire cosa ci sarà mai da festeggiare il prossimo 27 marzo.


di Alessandro Toppi

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