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  • Immagine del redattoreMichele Trimarchi

Cronache dalle torri d'avorio

La prima volta che ho ascoltato musica classica ero davvero piccolo. Esistevano gli LP di vinile e, sul giradischi di casa, mia madre mi fece ascoltare “L’apprenti sorcier” di Paul Dukas. Non avevo visto “Fantasia”, in effetti non l’ho visto mai per intero. Mentre le note si moltiplicavano mia madre mi raccontava la storia di un ragazzino monello cui la bacchetta magica era scappata di mano producendo effetti disastrosi. Sottolineava che le note della chiamata a soccorso replicavano l’urlo francese “À l’aide!” e sorrideva confortante all’arrivo dello stregone che faceva abbassare le acque, finalmente. Fece la stessa cosa con “La danse macabre” e con la Polacca opera 53, spiegandomi che la forza espressiva della cavalcata eroica stava nelle ottave ribattute, mimandone lo svolgersi con la mano sinistra.


Per farla breve, il piacere di un ascolto ludico e familiare ha tracciato una strada che dai dischi si è spostata in sale da concerto, poi in Conservatorio, poi ancora sui giornali a scrivere recensioni musicali, in un coro polifonico e, fino a qualche mese fa, nel Consiglio di una fondazione lirico-sinfonica. Al di qua delle etichette burocratiche, ho vissuto e vivo tuttora insieme alla musica in tutto lo spettro possibile: a quindici anni suonavo il basso in una band di adolescenti, qualche anno dopo mi aggiravo per la West Coast. Non ho mai pensato che si trattasse di un dovere morale, che mi facesse diventare eticamente migliore, che mi educasse alla bellezza e tutto l’armamentario di frasi lapidarie (nell’accezione sornionamente molteplice del termine) che di norma accompagnano ogni discorso sull’arte e la cultura.


Quando entro in un teatro mi sento confortato, mi scorrono in mente tutte le sere – spesso anche le mattine – passate in sala, dietro le quinte, negli uffici e nei laboratori, da curioso, amico di qualcuno che ci lavorava, giornalista, corista. Ci porto, quando posso, gli studenti, cercando di inoculare il virus del mistero che ogni teatro custodisce nei suoi percorsi labirintici. E mi chiedo: quante persone non ci sono mai entrate? Quante non si sono divertite (inebriate, forse) a esplorarne passaggi, corridoi, scale, stanzoni? Facendo l’esercizio da fuori, molte cose diventano chiare. I teatri, come quasi tutti i luoghi della cultura, sono magnifici, imponenti, eleganti. Chiusi, estranei, esclusivi, respingenti, isolati, ermetici. Passandoci accanto, i segnali convergono tutti verso un unico messaggio, quello che protegge la porta da cui entrano gli artisti e che la società legge come ‘ingresso riservato’.


Si potrebbe obiettare che la forma dei teatri è il legittimo retaggio dell’epoca d’oro in cui, secondo uno slogan del tutto infondato e snobistico, tutti andavano a teatro. Cosa del tutto falsa. A ben guardare, è il sintomo spiacevole della presunzione che anima la maggioranza degli addetti ai lavori, che si vantano – oltre la decenza – di una presunta ‘diversità’ (che fa pericolosamente rima con superiorità) rispetto al resto del mondo. Segnali chiari, che arrivano fino alla cascata di lamentele di chi si dichiara incompreso, alla bufala di una società ignorante e barbara proprio negli anni in cui si mostra quanto mai sofisticata e complessa, al compiacimento del pubblico striminzito “perché solo pochi capiscono la nostra creatività”. Non fosse tragico, sarebbe grottesco. Se il sistema culturale naviga nel paradosso desolante di una ricchezza espressiva unica e molteplice, ma non trova sbocco in una società che pure ha fame di visioni e storie, è una precisa scelta semantica, simbolica e concreta di tutti quelli che, sfidando il ridicolo, si credono iniziati.


Così, a osservare con occhio laico le dinamiche del sistema culturale si finisce per capire che il luogo comune sulla società barbara è uno schermo protettivo adottato per risolvere questioni psicologiche: l’ansia da prestazione e il complesso d’inferiorità rispetto al comparto industriale, che nella vulgata dominante è solido e produce tanto denaro; la rabbia di dover questuare la propria sopravvivenza a burocrati cui la legge chiede un’azione censoria basata su valutazioni estetiche; la presunzione di scremare la società selezionandone la parte ‘migliore’. Artisti creativi, impresari, tecnici che un tempo venivano sepolti in terra sconsacrata (bei tempi quelli in cui la cultura fa paura, perché sbatte in faccia uno specchio impietoso, sferra un pugno nello stomaco, dileggia le convenzioni, smonta le ancore del conforto) adesso fanno di tutto per dimostrare di essere come gli altri, anzi sottolineano di essere migliori arroccandosi in santuari circondati da barriere materiali e simboliche.


Eppure, mentre il sistema culturale si ostina nella propria calcificazione, la società mostra di comprendere e assaporarne il valore, spostando il piano della fruizione verso luoghi non convenzionali e sui canali digitali. Certo, questo scatena l’ennesimo strapparsi le vesti: l’esperienza culturale ha valore solo se realizzata ‘di persona’. Se è così, allora, tutti i libri d’arte, i dischi, i film, i programmi televisivi che ci hanno volta per volta incuriosito e spinto dentro teatri e musei non sono più accettabili? Da quando l’ascolto della musica a casa mi ha spinto a entrare nelle sale da concerto ho finito per acquistare ancora più dischi, per ascoltare Radio Tre ogni volta che fosse possibile, per cercare programmi televisivi che ‘contenessero’ musica e ogni altra forma d’arte, per sussultare ogni volta che un film e uno spot pubblicitario si affidavano alla musica classica (comunque la si voglia definire) o all’opera per emozionare e sedurre. Così, mentre la società dimostra, in modo magari scomposto ma certamente chiaro, che l’arte e la cultura sono eloquenti e incisive, e ne riconosce il forte potere evocativo, il sistema culturale si piange addosso giocando il ruolo comodo e patetico dell’incompreso.


Basterebbe smantellare, con decisione e senza incertezze, gli ostacoli che mantengono lo stato di torri d’avorio per luoghi che invece dovrebbero essere permeabili, accessibili, accoglienti e inclusivi. Anche per rendere giustizia agli artisti creativi, che certo non hanno studiato e faticato per vedere le proprie opere riservate a pochissimi, negate alla condivisione generale, sepolte nei depositi. Né vale l’argomento della ‘comprensione’ che solo pochi possono permettersi: il metabolismo culturale è graduale, lungo indefinito e soggettivo. La vera sfida è attivarne le prime dosi, non certo pretendere l’adesione di un club. E poi, siamo sicuri che abbonati, loggionisti e appassionati vadano sempre e comunque a fondo del discorso culturale? Il rischio è preferire la fedeltà al pensiero critico, premiare la consuetudine a quell’esplorazione virginale che da spettatori occasionali ci trasforma in abituali, finisce per crearci ‘dipendenza’ (quanto resistiamo senza ascoltare musica, senza leggere un romanzo?) e ci invoglia a partecipare, tornare, portare con noi altri appassionati o neofiti da convincere.


Se la cultura attraversa tempi turbolenti non è per la presunta ignoranza della società, ma per l’ignorante presunzione di chi interpreta il mestiere più bello e fertile come un sacerdozio costrittivo da maestrini. Lo spirito del tempo indica un orizzonte nel quale la cultura ha una posizione centrale purché se ne attivi il percorso che alcuni di noi hanno avuto la fortuna di intraprendere da bambini, ma che può partire a qualsiasi età se si ha il coraggio di sostituire la pesantezza snobistica con la complicità leggera.


di Michele Trimarchi




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