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  • Immagine del redattoreEmanuela Bizi

Vero valore alla cultura

Cultura, parola usata e svuotata troppo spesso dal suo significato.

Forse è proprio da questo che invece bisogna ripartire, dal suo significato.

Cultura: “L’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo, diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio” (enciclopedia Treccani).


Quindi, quando parliamo di cultura parliamo degli individui e del loro stare in una società complessa. La formazione si compie attraverso gli studi, ma prosegue con la curiosità del sapere. Gli individui diventano consapevoli, in grado di utilizzare la capacità critica.

Questi elementi sono antidoti potentissimi all’individualismo, alla sottovalutazione delle competenze. Danno ai cittadini la capacità di muoversi e di scegliere in un mondo complesso, ai lavoratori quella di non farsi travolgere dai cambiamenti.


Uno Stato moderno quindi investe nell’istruzione, contrasta la dispersione scolastica, investe nella formazione degli adulti, nell’accesso al patrimonio culturale materiale ed immateriale. Le ricadute di questi investimenti si traducono in una maggior capacità competitiva di tutti i settori.

Purtroppo l’Italia da troppi anni, invece, non porta al centro degli investimenti quelli per l’istruzione e la cultura. La dispersione scolastica, che non si circoscrive al solo periodo formativo, è un fenomeno che non fa notizia; questo ci fa capire quanto equa è la nostra società. I giovani che non frequentano regolarmente i cicli scolatici, o lasciano la scuola, lo fanno anche per motivi socio-economici. Questo li condanna ad avere minori opportunità e maggiori i costi saranno per lo Stato.


L’Italia migliora lentamente rispetto ad altri Paesi europei, e questo testimonia una sottovalutazione da parte della politica, poco lungimirante. Peraltro non si valuta neppure il rischio in questo momento che il fenomeno aumenti e quindi non si mettono in atto misure efficaci di contrasto.

I dati sull’analfabetismo di ritorno e su quello funzionale dovrebbero generare un grande allarme, ma vengono ignorati. Questo si traduce in una difficoltà insormontabile quando è necessario formare i lavoratori rispetto ai cambiamenti che si susseguono velocemente nel mondo del lavoro.

Non si può ignorare anche come questo si traduca in un indebolimento delle democrazie. Cittadini che cadono facilmente preda delle fake news, mancanti di capacità critica, abituati agli slogan ed incapaci di approfondire, deboli e che non possono praticare correttamente i propri diritti/doveri civili, sono cittadini di serie B.

Lo Stato sottovaluta il ruolo di contrasto a questi fenomeni che viene operato dal settore dello spettacolo. Non solo stanziando poco e male le risorse. Questa sottovalutazione non garantisce il diritto di accesso a tutti i cittadini.

I dati Istat impietosamente evidenziano come poche persone frequentino i teatri e lo spettacolo dal vivo. Il dato relativo alla scarsa frequentazione dei musei ha determinato una qualche attenzione, anche se superficiale e non sufficiente, da parte del MiC che ha individuato la misura delle domeniche gratuite. Ancora una volta, però, si manifesta attenzione per la cultura materiale e si ignora quella immateriale.


Lo spettacolo dal vivo resta la Cenerentola, testimoniata in qualche modo dalle parole del presidente Conte - “Gli artisti che ci fanno tanto divertire” - e del Presidente Draghi che ha parlato della cultura solo in termini di identità.

Ora che il settore è fermo mi sarei immaginata che crescesse un intenso dibattito, sapendo che eravamo al rinnovo della triennalità per il Fondo Unico per lo Spettacolo e che il relativo decreto era stato oggetto di numerose critiche. Era il momento per definire il ruolo e la funzione del teatro pubblico, comprese le Fondazioni lirico sinfoniche, di ragionare sui decreti della legge 175 (Codice dello Spettacolo), definire i finanziamenti, dando una diversa funzione a quelli locali.

Era necessario avviare questa discussione, che avrebbe trascinato anche una riflessione su come è diffusa l’offerta sul territorio, definendo meglio il finanziamento per garantire un reale accesso a tutti i cittadini, grandi e piccoli. Essere nel 2021 e assistere ancora ad una forte sperequazione dell’offerta culturale territoriale, registrare desertificazioni in regioni come la Calabria, o nei territori lontani dalle città metropolitane, è inaccettabile, perché anche su questo si misurano le diseguaglianze. Era l’occasione per parlare anche di come lo spettacolo dal vivo deve essere presente nelle scuole, anche in un’ottica di contrasto all’abbandono scolastico, visto che il Miur ha sottoscritto un accordo con gli amatoriali e non con i professionisti, dimostrando in questo modo che non si crede realmente al valore espresso dal settore. Questo permetterebbe di dare un ruolo maggiore anche al teatro ragazzi.

Invece c’è un silenzio assordante, poche voci cercano di aprire la discussione, ma manca quella del Ministero della Cultura, manca quella delle imprese, in particolare quelle che un tempo erano Teatri Stabili e Teatri Lirici. È chiaro che i soggetti più finanziati aspettano, sperando di tornare al prima, ma è un grande errore. Nulla sarà come prima, né il comparto, né la società.

È necessario ridefinire i soggetti da finanziare, il ruolo a loro assegnato, curarsi, in un Paese ferito, di garantire l’accesso alla cultura, affrontare il tema di un sostegno reale alla molteplicità delle esperienze imprenditoriali che sono una caratteristica del settore. Parimenti, sostenere adeguatamente le professioni riconoscendone il ruolo sociale.


Finalmente in Parlamento è stato depositato un disegno di legge che pone al centro i diritti e le tutele riconoscendone l’atipicità [n.d.r. PdL Gribaudo-Carbonaro]. Ora si deve compiere l’iter legislativo, perché una garanzia di reddito permette di scegliere e contrastare il ricatto che troppo spesso questi professionisti devono subire. Tanto più necessario alla ripartenza.

Sono convinta che partire dai diritti dei lavoratori ponga la condizione per affrontare altri nodi che interessano il settore. L’Italia non ha mai dotato i professionisti dello spettacolo di specifici diritti. Ora è il momento di colmare questo grande ritardo.


Ma c’è anche il tema che riguarda un tessuto composto da piccole, piccolissime imprese. In questi contesti, per nulla o poco finanziati, è difficile rispettare i diritti minimi del lavoro.

La domanda è: si tratta di un dato specifico oppure è una patologia del sistema, che concentra la maggior parte delle risorse su “grandi soggetti“ senza dare a questi ultimi precisi limiti e compiti e senza individuare risorse sufficienti per il comparto? Non sarebbe importante dare proprio alle istituzioni locali il compito di mappare le imprese sul territorio, individuando criteri per promuoverne il consolidamento? Non si può non considerare che gli spettacoli si svolgono anche al di fuori dei grandi teatri, che questo permette la diffusione sul territorio e un maggiore accesso anche al pubblico giovanile. In quei contesti si sperimenta e si innova.

Lo spettacolo dal vivo è appunto vivo ed è una risorsa per un Paese che vive una pesantissima crisi. Le regioni sono proprio quelle che potrebbero, conoscendo queste realtà, sostenerle per garantire diritti anche ai lavoratori. Ma ora c’è una grande differenza tra le legislazioni regionali, quasi sempre non efficaci.

Non credo che sia sufficiente prevedere, come ha fatto il Ministro, un grande rinascimento se non se ne creeranno le condizioni.

Riconoscere il ruolo sociale dello spettacolo dal vivo, individuare il diritto dei cittadini all’accesso, riconoscere e promuovere la ricerca e l’innovazione nei vari settori sono le condizioni di partenza. Ma non basta.

È altrettanto necessario istituire Osservatori regionali, dare maggiori compiti a quello nazionale. Promuovere ricerche e studi sul pubblico. Evitare i finanziamenti a pioggia, ma finanziare adeguatamente i soggetti.

È un errore continuare ad allargare, com’è stato fatto, il sostegno del Fondo Unico per lo spettacolo, ad esempio, a carnevali e manifestazioni storiche. Anche la musica popolare dovrebbe trovare un sostegno diverso. Per non svuotare di significato il Fondo bisognerebbe dare sostegno diretto ad alcuni soggetti vincolandoli a delle condizioni, mentre le altre attività andrebbero sostenute con altre risorse e agevolate tramite semplificazioni. Peraltro continuare ad allargare i beneficiari lasciando praticamente inalterato lo stanziamento complessivo è un grande errore, perché è noto che i finanziamenti sono insufficienti, anche rispetto a quelli previsti in altri Paesi europei. Questo avviene perché la politica fino ad oggi ha preferito non decidere.

Se riconosciamo alla cultura il ruolo che deve avere in una società complessa, sapremo davvero promuovere il rinascimento, non solo dello spettacolo dal vivo, ma dell’intero Paese. Ma anche le recenti misure del Governo testimoniano che, anche in questo tragico frangente, non si decide di investire in cultura. Grave aver ridotto i sostegni ai lavoratori che sono in ginocchio da troppi mesi. È un segnale anche aver sottratto il turismo a quello che è diventato il Ministero della cultura. Ci vorrebbe una visione complessiva, la cultura non si lega solo al turismo, ma la promozione dei luoghi culturali e della produzione culturale otterrebbe da un lato l’accesso ai cittadini, dall’altro la possibilità di crescita economica per tanti territori. È sciocco, ad esempio, non valutare le ricadute economiche dei tanti festival che si tengono tutti gli anni.

Insomma, come tutte le crisi più profonde, anche questa può determinare una vera rinascita, ma solo se sapremo dare il vero valore alla cultura.

di Emanuela Bizi

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