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  • Immagine del redattoreFabio Mangolini

Quando usciremo dalle catacombe

Certo verrà il momento. E allora usciremo dalle catacombe, stremati, con le ragnatele sul viso e le membra intorpidite. Quando usciremo troveremo lapidi e colonne corrose dalla sabbia e rese commoventi dall’abbandono e dal silenzio. Nella desolazione delle rovine riscopriremo l’aria aperta e la luce. Ne rimarremo accecati?


Alla sensazione di residualità che si respirava prima del marzo 2020 fa sempre più spazio la consapevolezza. Ci si aggrappa agli scogli in questo mare in tempesta nella speranza di non venire spazzati via dalla furia delle onde. Forte, costante, sempre presente, martellante, intensa, ossessionante, snervante, è la tentazione dell’abbandono. Del definitivo abbandono conseguenza dell’avvilimento e dello sconforto. Si evocano, quasi a voler arginare l’incalzare dello sfinimento, parole chiave come fossero talismani: resistenza, resilienza, rinascita, reazione… reinventarsi. Il prefisso re- opera come un lenimento dell’anima, in realtà un vezzo linguistico che sta ad indicare un possibile movimento a ritroso, un ipotizzabile e auspicabile ritorno ad uno stato anteriore, un tornare sui propri passi. Quasi a dire che il “prima”, da cui si proviene, si possa considerare una sorta di “età dell’oro” da recuperare o, tutt’al più, un punto di riferimento al quale approdare.


Forse, tralasciando il prefisso re- che ci porta a percorrere di nuovo itinerari battuti, quelle locuzioni andrebbero prese in considerazione nella loro potenza di atti linguistici: non re-agire, ma agire, non re-inventare, ma inventare, non ri-nascere, ma nascere.


Se siamo a chiedere che per un giorno, anche solo uno, come abbiamo fatto alla fine di febbraio, si accendano le luci dei teatri, si accenda la luce sul teatro, è perché tutte le luci sono spente, anche i barlumi più fiochi e, nel buio, il teatro viene lasciato alla deriva. Le ceneri della fenice sono state disperse dal vento, impossibile ormai che da quelle possa ri-nascere qualcosa.


Ce lo diciamo da un anno, al ritmo di un mantra, che bisogna inventare qualcosa di unico, di mai pensato, di mai immaginato. Si procede per tentativi, per epifanie. Da mesi ci ripetiamo che siamo obbligati a sviluppare misure efficaci che possano generare cambiamenti duraturi e sostanziali, che l’alternativa non possono essere i palliativi, le “misure emergenziali”, che non andranno oltre il trattamento di un disturbo, per quanto terribile esso sia, senza incidere profondamente nella cura di un sistema già ammalato e, proprio per questo, più fragile. Alla diagnosi infausta non può solo corrispondere una terapia, fosse anche d’urto. C’è bisogno di una cura efficace anche, e soprattutto, attraverso nuove pratiche, nuove abitudini, nuovi stili di vita. Se fino ad un anno fa potevamo dire che il teatro italiano avrebbe dovuto semplicemente ripartire (ancora una volta il prefisso re-), oggi, invece, dobbiamo ammettere di essere ad un anno zero. Che non ci si vergogni della situazione, ma che la si colga in tutta la sua strabiliante novità. Poche sono le forze che ci restano. Bisogna costruire sentieri, percorsi, ponti, prepararci all’incontro, prendere forma e darsi forma. Formare, formarci.


Nell’ultimo periodo circola in rete, sulle bacheche social, un simpatico diagramma, una sorta di mappa mentale, chiamato “Ecosistema teatrale”. Ha uno scopo ben preciso: rammentarci, e rammentare a chi non ci conosce, quante persone, quanti mestieri, quanti saperi, ruotano attorno allo spettacolo dal vivo. Quante lavoratrici e quanti lavoratori, quante storie di vita. E lo schema è dettagliatissimo. Racchiude tutte le professioni riunite attorno a insiemi come “Artisti”, “Produzione”, “Distribuzione e promozione”, “Strumenti e attrezzature”, “Servizi creativi”, Servizi professionali”, “Ricerca e critica”, “Comunità locale”. C’è di tutto: dal social media manager ai B&B, dall’attrezzista al servizio affissioni. È importante e giusto considerare il mondo del teatro come un ecosistema complesso, oggi diremmo interconnesso, composto da persone vive e che, a differenza di altre arti, non sopravvivono a se stesse. E poi c’è il pubblico, i pubblici, la cosiddetta fruizione culturale, la formazione degli spettatori attenti e consapevoli, l’audience development e se vogliamo anche il people empowerment e la crescita del senso di cittadinanza e di comunità. C’è anche la Scuola intesa come agenzia di riferimento in tutta le sue variegate dimensioni. Sembra esserci tutto. Eppure manchiamo noi stessi. Manca da dove veniamo, dove siamo cresciuti, manca la nostra formazione, la nostra scuola, la nostra accademia, il nostro luogo d’incontro e di scambio, la nostra palestra professionale. Come è possibile?


La pandemia ci ha imposto un tempo d’arresto. Sono nati gruppi d’interesse, è cresciuta in molte e molti la consapevolezza dell’appartenenza ad una precisa professione marginalizzata, si fatta dell’autoformazione, soprattutto sui temi più caldi come i propri diritti, il lavoro, i rapporti con le istituzioni. Si è cercato, soprattutto all’inizio, di gestire il tempo facendolo attraversare da un vento di solidarietà e di baratto delle conoscenze. Tendenza spontanea come lo furono il baratto e i gruppi d’acquisto nell’Argentina della crisi economica del 2001, l’argentinazo. Sono state accese curiosità. Per molti è stato necessario mettersi al passo con nuovi modelli di produzione e di consumo nell’era digitale Si è resa evidente la necessità di una formazione costante, permanente. Esigenza venuta “dal basso”, si dirà. Risposta spontanea di un ecosistema che si interroga sul suo futuro. Un bisogno, un’urgenza, un’impellenza che è parsa svanire di fronte all’abitudine o al miraggio di un ritorno alle consuetudini. Non se ne è fatto un sistema. Eppure la formazione, intesa come trasmissione e incontro dei saperi, segna l’incedere virtuoso di ogni processo innovativo. Iniziavamo ad accorgercene.


Serve quindi un cambio di paradigma. Meglio, un aggiustamento del paradigma: da una formazione esclusivamente indirizzata all’inizio della carriera ad una formazione che faccia parte, che accompagni la stessa carriera. Creare strumenti normativi che facciano della formazione continua un pilastro della nuova maniera di avvertire e organizzare il mondo dello spettacolo, ancorando la formazione professionale ad un sistema di welfare definito nei suoi assi principali: mantenimento della professionalità attraverso sostegno al reddito e attraverso un progressivo aumento delle proprie competenze. Il che significa riconoscimento delle professioni e affermazione della formazione come motore e generatore di incontro, di scambio, di creatività, di crescita qualitativa.


Non siamo soli, non è un problema solo italiano. Il lockdown ha investito globalmente il mondo dello spettacolo, anche se non in misura eguale. Nei paesi in cui welfare e formazione, abbinati, hanno assunto un carattere sistemico, le risposte sono state, appunto, di sistema. Altrove si è cercato di rispondere con “misure emergenziali” e spontaneismo che, per definizione, sono destinati a scemare una volta riacquistata una nuova normalità modellata sulla memoria di quella passata.


Non siamo soli e l’UNESCO in un prezioso documento pubblicato pochi mesi fa dal titolo emblematico di “Cultura in crisi”[1], raccomanda cinque misure fondamentali e sistemiche per guardare al futuro: sostegno diretto ai professionisti della cultura; forme di indennità sociali; acquisto delle opere a prezzi di mercato; compensazioni per la perdita di reddito; sviluppo delle competenze.


Nel documento dell’UNESCO, in particolare, si suggerisce di prepararsi alla ripresa investendo in formazione, ricerca e sviluppo “per far progredire lo stato delle conoscenze e delle competenze e per far emergere forme di espressione nuove e più diversificate.” Infine, “per favorire lo sviluppo delle competenze, che possono rivelarsi di grande ricchezza tanto per il creatore che per la disciplina artistica”.


Un’ultima raccomandazione, quasi profetica: “promuovere la condivisione delle conoscenze. Le lezioni apprese devono essere messe a disposizione di tutti per rendere il settore culturale ancora più resiliente”.


A noi lavoratori dello spettacolo, noi che abbiamo in fondo scelto la resilienza come stile di vita, viene offerta la possibilità di negoziarla.


di Fabio Mangolini



______________ [1] https://fr.unesco.org/creativity/publications/culture-crise-guide-de-politiques-pour-secteur#:~:text=La%20Culture%20en%20crise%20offre,%C3%A0%20la%20%C2%AB%20nouvelle%20normalit%C3%A9%20%C2%BB

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